Il libro

Il Concerto per Violoncello e Orchestra di Anton Dvoràk

PREMESSA

Dvoràk terminò la revisione del Concerto per Violoncello e Orchestra nel 1895, quando era già tornato a Praga, dopo l’avventura americana durata circa due anni e mezzo.

È stato detto, erroneamente, che questo Concerto esprimerebbe la terribile nostalgia che aveva preso il Compositore nel ricordare la Patria lontana, che amava al punto da identificare gran parte della sua opera musicale con i luoghi i sentimenti gli stati d’animo, a Lui cari, della natìa Boemia.

Ma in quasi nessuna opera di Dvorak è provato che sia presente una “nostalgia” ascrivibile come stato d’animo al Compositore, mentre in molti brani si può ritrovare “nostalgia” ascrivibile ai soggetti cui il brano si riferisce: ad esempio, nel secondo e celeberrimo tempo della Sinfonia n° 9 (dal Nuovo Mondo) il Canto dei negri esprime sicuramente una immensa nostalgia per la terra da cui sono stati deportati e per la paventata perdita delle loro radici e del loro antico modo di vivere primitivo e generoso, ma sarebbe assolutamente privo di senso identificare questo stato d’animo, vissuto e descritto chiaramente come appartenente a quel popolo, con un presunto stato d’animo nostalgico inconsciamente proiettato dal Compositore nella sua opera.

Ancora, ad esempio, nella Danza Slava n°10 in mi bemolle (forse la più bella) è chiaramente individuabile ed espresso un senso di vuoto, di perdita assolutamente definitiva di qualcuno o di qualcosa di caro, assieme ad una allucinata e dolcissima stupefazione per questa tristezza che la vita ci condanna a conoscere, con tutti gli interrogativi conseguenti; ma sarebbe oltremodo riduttivo scambiare per nostalgia “tout court” l’assieme di sentimenti, vibrazioni, stati d’animo comunicati dalla composizione: come quando porti un fiore al tumulo di tuo fratello, non è nostalgia, ma molto di più e di diverso, è quello che senti.

Per tornare al Concerto per Violoncello, e alla presunta nostalgia attribuita alla lontananza dalla patria, sarà sufficiente notare che questo sentimento può essere vissuto da chi sa di non poter tornare per un lungo periodo nel proprio Paese, ma non da chi sa che vi tornerà per sempre tra poco, e dove, comunque, è già tornato per qualche mese, prima di cominciare a scrivere il Concerto! Dvoràk non è un musicista piagnone e malinconico anche se riesce magistralmente ad interpretare gli stati d’animo di soffusa tristezza propri dell’animo slavo-boemo, che risentono come di una insicurezza delle proprie radici e di una voglia di fuga.

Certamente, Anton Dvoràk è un compositore che ama imprimere e trasmettere con assoluta chiarezza (qualche volta persino banale) concetti e sensazioni legati a stati d’animo da Lui vissuti e prediletti: innanzi tutto la sua Terra, i suoi boschi variegati ove tra macchie di conifere di verde profondo si aprono le bianche chiazze dei tronchi delle betulle, mentre occhieggiano qua e là piccoli laghi azzurri; poi le case, a volte cupe e dai grandi tetti spioventi, ove aleggia aria di tragedia, che incredibilmente permea sempre i borghi , i villaggi, le persone, anche nei momenti ritenuti più sereni e più sacri (basterà ricordare il Poema Sinfonico “La Colomba delle Foreste” e l’universo di sentimenti ivi scatenati, con una identificazione al programma di morte tale da rasentare il ridicolo se la intensità e la bellezza delle musiche non ne riscattassero a pieno la vena volutamente descrittiva); ancora, la raggelante grandezza delle città, e sopratutto di Praga, che Dvoràk avverte immensa, frastagliata com’è di guglie e statue, arredata con un gusto per noi inconsueto di barocco-liberty otto-novecentesco, in grado di colorare l’animo del compositore di sensi di tragedia tardo-romantica: non dimentichiamoci che le Scuole Nazionali hanno compiuto la loro parabola; la fine è vicina, il futuro incalza, già presente nei presagi impressionistici di Franck, Fauré, e sarà ben presto realizzato in Debussy e Ravel.

IL COMMIATO

Il Concerto per Violoncello Op.104 in Si minore è l’ultima grande opera sinfonica (forse, il capolavoro) di Anton Dvoràk.

Dopo, scriverà le opere teatrali “Il Diavolo e Caterina”, “Russalka”, “Armida”, terminerà i vari Poemi Sinfonici, l’ultimo Quartetto, il “Requiem”: la Sua eccezionale stagione è conclusa.

Il Concerto, completato nella prima stesura a fine Febbraio 1895 durante gli ultimi mesi del soggiorno americano, ma rielaborato (specialmente nel terzo tempo) dopo il rientro in Patria e terminato nell’Aprile 1895, può essere considerato il Suo testamento spirituale: una rievocazione dei momenti più significativi della vita, una affermazione ed espressione delle Sue idee e sentimenti più profondi, e, in ultimo, la prefigurazione di un sofferto e drammatico commiato. Si chiude la Sua vita di Artista, ma contemporaneamente si chiude l’epoca della musica nazionale basata sugli elementi e valori tipici del sentimento popolare: come in un presagio, il Concerto per Violoncello prefigura la imminente scomparsa dalla scena del mondo di quell’evento generoso e vibrante che furono le Scuole Nazionali, i cui grandi e nitidi affreschi emozionali hanno permesso di penetrare intimamente i recessi più profondi e particolari dell’Anima dei popoli.

LINEAMENTI GENERALI

L’avventura americana, forse il momento più importante della vita di Dvoràk, sta terminando: la sua vita artistica è ormai quasi compiuta, coronata dall’aver contribuito in maniera decisiva alla nascita della Scuola Musicale Americana; in questo scenario, è concepito il Concerto per Violoncello in Si minore.

Ma non è possibile affrontare l’esame dei significati di quest’opera, senza ricordare un episodio determinante della vita di Anton Dvoràk: l’amore segreto (destinato a diventare per tutta la vita fonte di ispirazione) per la futura cognata Josefina Cermàkovà, cui trent’anni prima aveva dato lezioni di piano, e della quale in seguito aveva sposato la sorella minore; Dvoràk dedicò a lei una Canzone (Op.82/1) e, sempre per lei, scrisse in gioventù la bozza di un Concerto per Violoncello in La maggiore (1865) mai orchestrato né eseguito in pubblico; in seguito scrisse “Cipressi” (1887), sequenza di melodie per quartetto d’archi (gran parte delle quali disilluse e senza speranza, come i loro titoli), quasi a voler celebrare in un cammino senza ritorno le esequie del suo sentimento amoroso per Josefina.

Ebbene, essa cadde gravemente malata proprio poco prima del periodo in cui, tornato per la seconda volta a New York, il Compositore iniziò a comporre il Concerto (Ottobre – Novembre 1894), ma segnò per sempre questa opera: il secondo tema del primo tempo canta senza dubbio l’apparire dell’amore (e quindi di lei) nella vita del Musicista; il secondo tempo riprende interamente (riscrivendola in tre quarti) la Canzone Op. 82 composta per lei; non solo, Dvoràk probabilmente anticipa il ritorno in patria per rivederla viva, e un mese dopo, alla sua morte, decide di rielaborare parzialmente il Concerto aggiungendo, nel terzo tempo, alcune citazioni della Canzone, e soprattutto, verso la fine, sessanta nuove battute, certamente le più drammatiche, ove il ricordo ed il rimpianto per un inesausto non corrisposto amore si trasfigurano nell’incontro di due anime divenute finalmente una sola.

Quando un Artista si esprime così, non ha bisogno di aggiungere altro: il Concerto è come un colloquio intimo con lei, l’ultimo; in esso il compositore le consacra idealmente l’intera sua vita, una vita in cui la centralità e l’importanza di questo amore è riaffermata dalla sua musica in maniera determinante. Non a caso, in gioventù, fu scelto il violoncello per elevare il primo canto d’amore incompiuto, non a caso oggi il violoncello sanziona in una rievocazione definitiva il canto di morte, il commiato.

La parte del violoncello – 1° tempo

Analisi del primo tempo

Il primo tempo del Concerto ripercorre la vita del Compositore nei momenti salienti; tramite il canto del Violoncello solista viene compiuto un vero e proprio esame di coscienza durante il quale l’Autore si interroga e cerca di rispondere, secondo le Sue convinzioni, alle domande fondamentali dell’esistenza, alternando momenti di commossa rievocazione.

Inizia l’Orchestra anticipando (battute 1 – 86) i due temi fondamentali del primo tempo (della Vita e dell’Amore) e preparando lo scenario generale per l’ascoltatore.
Nel primo tema viene esposto, inizialmente in maniera sommessa, l’archetipo domanda-risposta (nota 1) esprimente nelle prime quattro note (battute 1 – 2) il quesito fondamentale, che ogni uomo si pone, sulla validità della propria vita e delle proprie azioni: “ho io detto qualcosa, ho io donato qualcosa”? La risposta delle successive quattro note è assolutamente affermativa, ed esprime fierezza di sè.

Lo stesso archetipo viene nuovamente espresso (battute 9 – 10), ripreso in forma gridata (battute 17 – 18) ma più dubitativa (come se fosse stato inutile vivere e affermarsi) e quasi disperata, come esprime indubitabilmente la frase musicale passata temporaneamente dal Si minore alla sua dominante (Fa Diesis maggiore); e, dopo quattro battute di rielaborazione e preparazione, di nuovo lo stesso archetipo espresso in modo grandioso e senza incertezze (battute 23 – 24 e 27 – 28), mentre subito dopo si sviluppa un pensiero musicale ritmato (quasi una esposizione di vicende vissute) che conduce infine alla ripetizione, anche stavolta duplice, dello stesso tema archetipico (battute 45 – 46 e 47-48) e alla sua successiva “espansione” (battute 49 – 56), come a prefigurare un momento di raccoglimento, prima dell’inizio del secondo tema (dell’Amore), che è diviso in due parti: la prima, dalla battuta 57 alla battuta 64; la seconda, dalla battuta 64 alla battuta 74.

Qui occorre ricordare che Dvoràk stesso disse di non poter più riascoltare questo tema senza provare una intensa commozione: in effetti, la sua solarità, tenerezza, purezza dimostrano senza dubbio la volontà di esprimere (nella prima parte) la comparsa dell’Amore nella vita del Compositore, mista, stavolta sì, ad un senso di nostalgia e di dolore per ciò che poteva essere, ma non è mai stato e non sarà mai più; poi, sopratutto (nella seconda parte) il dover amaramente reagire, perché la vita continua, anche se il destino ha riserbato per Lui l’intenso e terribile fardello dell’amore non corrisposto. Difatti, le ultime due battute della seconda parte preparano la enunciazione dell’archetipo di ineluttabilità (nota 2) leggermente rielaborato (battute 75 – 86) e sfumato nel finale.

Ed ecco, “quasi improvvisando” (come dice la notazione sul rigo musicale), il Violoncello (battuta 87), che nuovamente espone vigoroso il primo tema (archetipo domanda-risposta), stavolta con forte carattere propositivo. Il discorso si snoda con intimità e “suspence” fino alla doppia analisi rielaborata del solo archetipo domanda (battute 110 – 111 e 112 – 113) cui seguono due accorati momenti di giustificazione interiore (battute 114 – 115 e 116 – 117) che attraverso il loro acquietarsi (battute 118 – 119) sfociano in quattro archetipi di dolcezza triste (nota 3) ripetuti due volte (battute 120 – 121) e rielaborati con drammatico vigore (battute 122 – 127).

Essi precedono il ritorno ancora duplice dell’archetipo domanda-risposta (battute 128 – 129 e 130 – 131), ove però la risposta è dubbia e sfiduciata (espressa in Sol minore con successiva risoluzione in Mi minore), anche se precede e introduce il secondo tema, purissimo canto d’Amore; questo canto, pur essendo espresso in Re maggiore (tonalità estremamente positiva), considerando però come lo aveva preannunciato l’Orchestra nelle battute 57 – 74, e come essa ora accompagna e commenta (con soli archi) il Violoncello solista, appare qui, specie nella seconda parte, particolarmente accorato e consapevolmente senza speranza. In effetti, dopo la prima esposizione (battuta 140 e seguenti), la seconda parte (battute 147 – 156) è densa di rimpianto e tristezza, e le successive “variazioni” (battute 158 – 165) appaiono come un tentativo di spiegarsi e razionalizzare il torto affettivo subìto e logicamente riconducono (battute 166 – 169) ad una rielaborazione dubitativa dell’archetipo domanda che si trasforma in tentativo di reazione (battute 170 – 171), cui seguono (battute 172 – 176) due archetipi espansi di ineluttabilità crescente e, infine, la riaffermazione della libertà individuale di vivere con dignità la propria vita (battute 177 – 179), anche se la ricerca di qualche momento di serenità e tenerezza (battute 180 – 181: archetipi espansi di dolcezza) viene frustrata dal ricomparire dell’ineluttabilità (battute 182 – 183) cui seguono momenti di dolorosa introspezione (battute 186-192).

Ma l’Orchestra ci riconduce nuovamente (battute 192 – 222) alle primitive domande, mentre la rielaborazione della seconda risposta (battute 195 e 199) esprime insicurezza, e si trascina fino al riaffacciarsi del Violoncello solo (battuta 223), che ripropone, spropositatamente dilatato, l’archetipo domanda-risposta, quasi a significare il trasformarsi del dubbio in un lungo e doloroso lamento esistenziale estenuato sino alla battuta 238, dato che dopo (battuta 240 e seguenti) si affaccia nel tema orchestrale l’angoscia, resa più intensa e drammatica dalla minuta autocritica compiuta dal Violoncello che sommessamente si sovrappone; e anche se lo scenario sembra ricomporsi e appagarsi (battute 243 – 245), successivamente, in un crescendo ancor più angoscioso e drammatico, vengono riformulate (battute 252 e 254) le domande di sempre; ma stavolta, la mancanza assoluta di risposta determina una violenta reazione (battute 256-260)  in cui il Violoncello, posta a tacere l’Orchestra, si staglia prepotente, quasi per riaffermare il diritto ad una vita indipendente e creativa anche se vissuta nella solitudine dei sentimenti; ma poi la reazione si stempera e si concreta nella riaffermazione solenne dell’Amore che resterà in eterno, enunciata col fortissimo dell’Orchestra (prima parte del secondo tema, battute 265 e seguenti); ad essa fa seguito una seconda parte enunciata dal Violoncello in maniera più positiva che alle battute 61 – 64, con una intensità che raggiunge l’acme in battuta 281 (primo movimento) per poi assumere una pacatezza nuova che introduce le variazioni introspettive (battute 285 – 292) analoghe alle precedenti (battute 158 – 165), cui seguono (battuta 297 e seguenti) gli stessi moti di reazione psicologica, ineluttabilità, tenerezza, con un accenno di accettazione evidenziato dalla tonalità diversa usata (Si maggiore, tonalità finale del tempo, mentre prima era in Re maggiore, relativa del Si minore iniziale); e subito dopo (battute 319 – 320) l’Orchestra ripropone ancora una volta la domanda-risposta, ma stavolta in maniera grandiosa e positiva (tonalità di Si maggiore) trascinando lo stesso Violoncello (battute 322 – 324) a rispondere nello stesso modo, quasi a voler significare il superamento di ogni dubbio, l’accettazione senza riserve della sofferenza, la riconquista di una indipendenza intellettuale: anche le successive battute 325 – 342 esprimono in modo quasi gioioso e ben determinato gli stessi concetti, mentre, al tacere del Violoncello, l’Orchestra per l’ultima volta e solennemente ribadisce la validità della vita vissuta e delle scelte fatte.

La traccia quì delineata esprime i sentimenti di fondo che l’Autore ha voluto porre alla base della esposizione e dell’analisi della Sua vita; occorre tener presente, per una corretta e completa comprensione del messaggio, che le forme archetipiche ricorrenti sono in continuo dialogo con le loro rielaborazioni mentali che appaiono sia nel tessuto orchestrale che nel canto del Violoncello, quasi a voler completare con ogni possibile sfumatura concettuale l’elencazione delle vicende principali della vita del Compositore.

La parte del violoncello – 2° tempo

Analisi del secondo tempo

“Lasciatemi vagar solo con i miei sogni”, così inizia la canzone dedicata in gioventù a Josefina, il cui brano musicale è posto dal Compositore a base del tema centrale del secondo tempo. Indubbiamente, è un momento di grande raccoglimento e preghiera, che viene quì espresso, dopo le tempeste del primo tempo. Non dobbiamo dimenticare che Dvoràk fu uomo di profonda fede, devoto alla moglie e alla famiglia (per cui dovette in particolar modo sentire interiormente la divaricazione dei sentimenti provocata dal sofferto e ormai idealizzato primo amore) e che conobbe lo strazio della perdita prematura dei primi tre figli. Raccoglimento e preghiera, ma anche brani di vita vissuta non senza travaglio, prima dell’apoteosi del commiato.

Le battute iniziali (1 – 9), prima dell’entrata del Violoncello, sono condotte da Oboi, Clarinetti, Fagotti: la fusione dei loro suoni richiama alla mente in modo indiscutibile l’organo, in una atmosfera di accorato misticismo. L’archetipo di dolcezza “aspra” (Nota 3) espresso dal terzo movimento della prima battuta viene magistralmente integrato dal richiamo solenne e altissimo dell’analogo movimento della seconda battuta, che si acquieta nella terza e quarta; lo stesso archetipo, ma rielaborato, compare nella ripetizione (quinta battuta) e anticipa l’accenno archetipico di pianto-tristezza del terzo movimento della sesta battuta, che si scioglie nella preparazione (ottava battuta) all’entrata del Violoncello.

Entra con fare dimesso, il Solista, ripetendo lo stesso tema, con voce umana, quasi a trasformare e incarnare in sé l’atmosfera mistica iniziale, ma facendosi meditativo (battute 12-14). Ed è subito dialogo con l’Orchestra, che lo interroga (“cosa volevi?” – battute 15 – 18), ed Egli commenta e risponde (“un poco di serenità e di affetto” – battute 16 – 18 – 20) mentre prepara (battuta 21) una intensa rievocazione della vita intima mediante gli archetipi espansi di tenerezza (ultimi movimenti delle battute 22 – 24) esponendo momenti di gioia alternati a lotte interiori (battute 25 – 26) culminanti in un grido (battuta 28) da cui si dipartono numerosi archetipi di dolcezza (battute 29 – 33), quasi a significare un bisogno di darne e riceverne, con rassegnazione finale; ma l’Orchestra torna a ricondurlo per un momento all’atmosfera mistica iniziale (battute 35 – 38) prima di scatenare archetipi di forza e di ineluttabilità espansa (battute 39 – 42) per richiamarlo con vigore alla necessità di tornare al raccoglimento; il Violoncello risponde prontamente, affiancato dal commento sottile e puntuale dei primi violini, cercando di “giustificarsi” e spiegare il motivo di un turbamento interiore terreno, e quindi dei suoi pensieri (battute 42 – 49).

Ma ecco che il canto passa all’Orchestra (flauto) quasi a indicare una via d’uscita verso la serenità (battute 50 – 53, tonalità di Si bemolle maggiore!), che il controcanto del Violoncello sembra inizialmente non condividere ma che in seguito all’insistere del flauto si trasforma in rassegnata condiscendenza (battute 54 – 57).

Giunge ora, dall’Orchestra, una più decisa esortazione a reagire e a risvegliarsi dal torpore amaro (battute 57 e 59), commentata e rifiutata dal Violoncello (battuta 58 e 60), subito prima di abbandonarsi nuovamente ad archetipi di dolcezza (come nelle battute 29 – 33), ma più estenuata, (forse la diversa tonalità?) e sopratutto contrastata, implacabilmente sottolineata dal “pizzicato” dei violoncelli (battute 61 – 64). Allora il Solista si abbandona ad un ultimo archetipo “aspro” (battuta 64) che prepara il repentino ritorno dell’Orchestra al richiamo all’ordine (battute 65 – 68), costituito nuovamente dagli archetipi di forza e ineluttabilità, che abbiamo già conosciuto.

Il contrasto tra Violoncello e Orchestra viene improvvisamente superato: quest’ultima fa suo (battute 69 – 74) il tema della “giustificazione” (espresso dal Solista nelle battute 42 – 49), e il Violoncello minutamente commenta e sottolinea, a dimostrare una raggiunta riconciliazione; e anche se l’Oboe riaccenna ancora (battuta 76), ma più sommesso, il tema “indicazioni” di battuta 50, con le susseguenti esortazioni (battute 83 – 85), stavolta, sia per la diversa tonalità, che per il linguaggio più remissivo del Violoncello (indicante accettazione) il contrasto sembra acquietarsi, anche se viene concesso una ultima volta il commento (battute 84 – 86) e la richiesta di tenerezza (battute 87 – 90), sempre punteggiata dal “pizzicato” dei violoncelli che termina sull’archetipo di dolcezza “aspra” (battuta 91), seguito però da archetipi dolcezza-domanda sfumati, quasi un soliloquio senza ritorno (battute 92 – 94); ma l’Orchestra, prima solennemente (battute 95 – 98) poi imperiosamente (battute 99 – 101), Lo ridesta, richiamandoLo alla meditazione, e quindi alla sua vera essenza, con un appello forte e drammatico (primo movimento della battuta 103); e allora il Solista si rassegna (battute 105 – 106) e chiede di fare in estrema solitudine per l’ultima volta la sua confessione (breve cadenza, battute 107 e seguenti), poi si lascia accompagnare dall’Orchestra a conclusioni unanimi.

Nuovo accenno (battute 129 – 132) alle domande delle battute 15 – 18, ancora commento ma stavolta niente richiesta di tenerezza, piuttosto un rifugiarsi in sogni lontani (battute 135 – 141) che poi svaniscono (battute 141 – 144); il ritorno alla realtà costituito dal breve accenno di cadenza (battute 146 – 147) precede un desiderio di liberazione, sottolineato dall’Orchestra, che condivide e auspica questo esito del cammino meditativo dell’intero secondo tempo: ma in ultimo un presagio attanaglia il Solista che per la prima volta sente come suo prossimo destino il commiato definitivo, anticipando ciò che esprimerà nelle drammatiche sessanta battute aggiunte nel terzo tempo dopo la morte di Josefina.

Meditazione raccoglimento e preghiera, dunque: ma anche tanta commossa rievocazione dei pensieri e desideri più profondi dell’Autore, e a tratti quasi ribellione alla vita, che Gli ha imposto frustrazioni e mancate tenerezze da parte di chi amava più di se stesso. E’ al termine della composizione di questo tempo che Dvoràk viene a sapere dell’imminente morte di Josefina: il presagio del suo commiato dalla vita, contenuto nelle ultime battute, si trasforma in tragico presagio di commiato da Lei, che verrà ripreso, e – vedremo come – sublimato, nel finale del terzo tempo.

La parte del violoncello – 3° tempo

Analisi del terzo tempo

E’ stato detto che il tema iniziale di questo tempo, ripreso più volte, avrebbe espresso la grande gioia del Compositore per l’imminente e definitivo ritorno in Patria (lasciata, in fondo, per la seconda volta appena qualche mese prima!).

A parte il fatto che la gioia era scontata da tempo (Dvoràk sapeva bene quando avrebbe terminato il suo impegno, poi probabilmente anche abbreviato a causa delle tristi notizie giunte da Praga), le gravi condizioni di Josefina non lo predisponevano certo a slanci esilaranti. Solo l’estrema superficialità di alcuni esegeti può aver proposto questa ipotesi. E allora, cosa vuole significare l’attacco del terzo tempo, con la sua baldanza, la sua ragionata determinazione, il suo evidente tratto conclusivo?

Nessun dubbio in proposito: è lo squillo dell’ultimo addio, del cammino verso altri destini, del consapevole e orgoglioso commiato.

Dopo lo scorcio appassionato della Sua vita compiuto nel primo tempo, la meditazione i pensieri i sogni le premonizioni del secondo tempo, ecco ora una prefigurazione del commiato dalla Sua vita di Uomo e di Artista, misteriosamente affiorata nella coscienza e prepotentemente affermata nella musica. Non è un cammino facile, dato che mille ricordi e sensazioni inespresse e incompiute lo richiamano indietro e gli rendono difficile il distacco supremo, come dimostrano i concetti musicali via via espressi. Ma quella che doveva essere soltanto una prefigurazione anche se sofferta del commiato dalla Sua vita artistica, diviene per un imperscrutabile disegno del destino, la manifestazione reale del distacco definitivo dalla donna amata, distacco che Dvoràk decisamente rifiuta, imponendosi, nelle famose sessanta battute introdotte dopo la morte di Josefina, un “itinerarium mentis” che Lo porta, sulla sommità di un ideale “ermo colle” da dove non è più possibile tornare, a ricongiungersi a Lei.

Inizia l’Orchestra : otto archetipi di forza solenne, e subito tre Corni, nelle successive otto battute, anticipano sintetizzandolo il tema del commiato (battute 5 – 12), cui rispondono tutti gli archi (e via via gli altri strumenti) con elaborazioni di forza, quasi grida di incitamento, preparando con ieratica enfasi l’avvento del Violoncello, che espone risolutamente (battute 33 – 40) la sua determinazione di andare.
E’ un tema che vede espresso un archetipo espanso di domanda-risposta retorica: “sulle soglie del porsi in cammino (prime quattro battute) hai qualcosa da recriminare?” – “No, andiamo (successive quattro battute), perchè tutto è ormai compiuto”. E il senso e la misura della “soddisfazione” è proprio nella originale quintina di note (battuta 39) che obbliga il Solista a un respiro, a un lieve rallentamento del tempo che si protrae fin nella seconda parte della battuta e termina conclusivamente in battuta 40.

Ma qui l’Orchestra fa suo con violenza l’intero tema e lo grida fortissimo (battute 40 – 48), a rimarcare indelebilmente la determinazione espressa dal Violoncello; il quale rientra nella battuta 49 commentando quasi trionfalmente in cadenza fino alla battuta 55, dopodiché continua a spiegare i motivi delle sue decisioni fino alla battuta 80, ove lo raggiunge l’Orchestra, ancora una volta per confermare, fino alla battuta 87.

Finora, nessun contrasto sulle decisioni prese, nessun pentimento. D’altronde Josefina è ormai morta, nessun motivo spirituale o terreno può più trattenere Dvoràk dalla volontà di commiato.

Si apre ora un lungo momento di rievocazione, quasi un richiamo del passato, ma visto con gli occhi di un distaccato ricordo: torneranno visioni di dolcezze infinite e momenti di abbandono anche nostalgico, ma vissuti con la consapevolezza di chi appartiene ormai ad un’altra dimensione; e l’Orchestra mirabilmente accompagnerà e guiderà questo ultimo canto senza opporsi, senza angosciose domande, senza richiami, attendendo con supremo rispetto che si compia interamente la palingenesi dell’anima.

Dalla battuta 87 alla battuta 110 è tutta una preparazione, con stimoli vivaci (battute 89 – 90 e 93 – 94) e in ultimo (battute 107 – 110) l’attesa: il Violoncello entrando deciso sembra cercare se stesso e domandarsi se è giusto ripercorrere antiche strade (battute 111 – 114 e 116 – 120), ma poi cede e ricorda con archetipi di dolcezza “aspra” gli inizi del proprio cammino, e all’oboe che lo interroga (battuta 129) risponde confermando (battuta 131) e dopo breve esitazione (battute 132 – 134) torna con più dolcezza al ricordo (battute 135 – 142) preparando il momento più struggente e nostalgico (battute 143 – 158) dell’intero Concerto, che l’Orchestra riprende e condivide quasi in modo rapsodico (battute 159 – 166) sottolineata da gemiti dolorosi (battute 159 – 160 e 163 – 164), cui fanno seguito come dei singhiozzi (archetipi di pianto “espansi”: battute 167 – 168 e 171 – 172), poi repressi a fatica (battute 173 – 177) e terminanti in un lungo rigurgito meditativo che ha momenti di intensità quasi disperata (battute 189 – 198), per riprendersi in ultimo (battute 199 – 202) e tuffarsi (battuta 203) tra le certezze dell’Orchestra, che lo incita a riaversi (archetipi di forza e ineluttabilità), accettare, ripetere ancora una volta (battute 226 – 237) la rievocazione degli inizi fatta nelle battute 121 – 128, e poi proseguire da solo; così, il Violoncello, dopo breve meditazione (battute 238 – 242), si ricompone (battute 243 – 245), e faticosamente si riavvia verso il commiato, in estrema e dolorosa solitudine (battute 246 – 253), seguito poi da tutta l’Orchestra (battute 254 – 266) che sottolinea nelle sestine interrotte dei primi e secondi violini (battute 254 – 256) una rispettosa ma franca soddisfazione per il cammino finalmente ripreso, imponendo però (battute 269 – 280) una pausa di riflessione.

E qui inizia l’ultima lunga meditazione, in cui il Violoncello, affiancato dall’Orchestra, esprime un tema dolcissimo e fermo (la tonalità è passata in sol maggiore!), quasi a esprimere una intima volontà di purificazione (battute 281 – 288), seguito da momenti di pentimento (battute 289 – 296, con archetipi di dubbio interiore nelle battute 290 – 294), per essersi prima lasciato andare a così partecipata e disperata rievocazione; il tema riprende intensissimo (battute 297 – 314), col suo acme nelle battute 301 – 302, confermando, in colloquio con l’Orchestra (battute 305 – 306 e 309 – 310), il fermo impegno a non più voltarsi indietro; ma l’Orchestra vuole la certezza, e lancia (battute 315 – 332) incalzanti interrogativi di approfondimento condivisi dal Violoncello che minutamente li commenta e li fa suoi, fino all’intreccio congruente di opinioni (battute 331 – 346) che si conclude con una responsabile e comune preparazione (battute 343 – 346) al ritorno stavolta grandioso e sereno del tema della purificazione (la tonalità è passata in si maggiore e vi resterà sino in fondo!) espresso in stretto, gioioso, commovente connubio (battute 347 – 379), che vede nella basilare liberatoria conclusiva battuta 380 la sua fine (archetipo di “salita rapida”); poi sarà tutta una comune e ansiosa corsa (battute 381 – 412) verso il riscatto e la liberazione dai vincoli terreni, che, attraverso una magistrale e risoluta preparazione (battute 413 – 418), termina in un solenne annuncio (battute 419 – 420), immediatamente reiterato dall’Orchestra (battute 421 – 424): sta per verificarsi ormai il grande, paventato, desiderato evento del commiato, del distacco definitivo, del ricongiungimento a Josefine.

Ed ecco, quasi in lieve cadenza, tornare in forma meditativa il primo tema (battute 425 – 436), come ad auspicare un profondo raccoglimento prima del passo estremo, seguito da un lento e fatale avviarsi (battute 436-448, con archetipi espansi di “discesa lenta” nelle battute 445 – 448) verso l’”ermo colle”, ultima meta, calvario respinto e agognato.

Iniziano nella battuta 449 le sessanta battute, introdotte da Dvoràk dopo la morte di Josefine, dal significato ormai chiaro: l’ascesi individuale dopo il supremo, faticoso distacco, e il ricongiungimento spirituale con Lei. E la musica illustra in maniera assolutamente trasparente tutto ciò: prima, un breve incerto cammino (battute 449 – 457), poi la contrastata salita; dopo un primo tratto (battute 457 – 460, con archetipi di “salita” nella battuta 459), una sosta: giunge da lontano un richiamo del passato (battute 461 – 465) a impedire la continuazione della salita; ma subito, senza esitazioni, il secondo tratto (battute 465 – 468, con archetipi di “salita” nelle battute 465 – 466), seguito però da un’altra sosta: quì, un altro richiamo più accorato del precedente (battute 468 – 473) tenta di interrompere il cammino; ma ormai quasi senza ascoltare, viene compiuto il terzo e ultimo tratto (battute 473 – 474, con archetipi di “salita”), e finalmente, la gioia violenta del trillo indica (battute 475 – 476) l’avvenuto ricongiungimento con Lei, e il conseguente distacco dal mondo materiale.

Ma ecco, ancora una volta, un richiamo, l’ultimo; sono le eterne domande iniziali che tornano, stavolta personalizzate (battute 477 – 480 dai clarinetti): Ti ho detto qualcosa, Ti ho donato qualcosa?

E Lei risponde, ripetendoGli le stesse domande (battute 481 – 484 dai corni), mentre il Violoncello, dopo i numerosi trilli, compie sulla “vetta dell’ermo colle” un ultimo lentissimo giro di commiato (battute 481 – 484) emettendo il suo più struggente lamento (*) a suggellare per sempre il cammino terreno compiuto e ad avviare (battuta 485) la rapida discesa verso l’infinito (battute 485 – 495, con archetipi di “discesa” nelle battute 485 – 488): i due Spiriti sono uniti per sempre, non torneranno mai più. Udiremo solo l’ultimo fortissimo grido del Violoncello, a sanzionare la fine (battute 496 – 499), mentre l’Orchestra sorge come rapida nebbia d’autunno ad avvolgere interamente la scena (battute 497 – 507) per poi inondare l’universo con gli ultimi archetipi di ineluttabilità (battute 509 – 516).

(*) – Nelle battute 481 – 484 l’Autore ha posto (consciamente o meno) una citazione tratta dall’Eugenio Onegin di Tchajkowskji: nel duetto finale tra Tatyana e Onegin c’è esattamente la stessa configurazione musicale (di intervalli e di ritmo) ripetuta due volte, accompagnata da parole aventi chiara allusione al loro comune tragico non corrisposto amore; Dvoràk la esprime una sola volta, con altrettanto chiaro riferimento alla sua situazione.

Frantisek Kupka

Frantisek Kupka – Der Traub – Bochum Museum

Dedicato agli interpreti

Come interpretare questo Concerto?

Dal contesto individuato e illustrato, appare chiaro che la libertà interpretativa è molto limitata, sia per il Solista che per il Direttore, se si vogliono rispettare fino in fondo le indicazioni dell’Autore. È nostro parere che questo criterio dovrebbe essere sempre adottato, affidando ad un precedente approfondito studio l’analisi delle volontà espresse dai Compositori e del messaggio contenuto nella loro musica. Purtuttavia, è da tener presente che, passando il tempo, variano i contesti culturali e le stesse modalità espressive necessarie a meglio identificare e rappresentare i diversi stati d’animo: ma solo entro questi limiti è giusto parlare di “differenti” interpretazioni, specie se ci si accinge a evocare momenti intimi e assolutamente autobiografici di un Compositore.

Dvoràk fu una persona di grande semplicità, ma profondamente schivo e geloso dei suoi sentimenti, che rivela in maniera trasparentissima solo nelle sue opere: e ,come nel caso di questo Concerto, essi sono talvolta così personali e profondi, da non essere assolutamente permesso sovrapporvi eccessivamente proprie idee o emozioni.

Parlando quindi al Violoncellista interprete, diremmo che gli è necessaria una profonda umiltà, una forte volontà di identificarsi col soggetto trattato, quasi annullando – per così dire – la propria personalità, per farsi soltanto rispettosa voce di un evento misterioso e sovrumano quale per noi rimarrà sempre l’ascesi e il superamento della propria fisicità.

Dvoràk dedicò questo Concerto all’amico di sempre, Hanus Wihan, col quale aveva condiviso momenti non sempre facili: lui avrebbe dovuto eseguirlo per primo nel mondo; ma ebbe forse il torto di non capire a fondo le motivazioni di questa opera, e propose numerosi cambiamenti, e soprattutto scrisse e pretese che fossero inserite delle “cadenze” alla fine del terzo movimento, all’unico scopo di esaltare le qualità virtuosistiche dell’interprete in un Concerto che – ovviamente – offriva al riguardo ben poche possibilità. Dvoràk sdegnosamente e risolutamente rifiutò (cfr. lettera a F. Simrock, 3.10.95), e ne aveva ben d’onde: inserirle nel contesto drammatico dell’ultimo commiato, Suo e delle Scuole Nazionali, solo per soddisfare la vanità del solista, sarebbe stato un pò come invitare Gene Kelly a ballare “sotto la pioggia”, gioiosamente, sulla pietra tombale della Musica del XIX Secolo. Leo Stern interpretò per la prima volta il Concerto, con immenso successo, a Londra il 19 Marzo 1896, a un anno di distanza dalla morte della grande ispiratrice, Josefina.

Cosa dire ancora ai Solisti che nel futuro lo interpreteranno? Di sentirsi sopratutto “una umile e dimessa voce dell’Orchestra”, e anche nei dialoghi con essa, sentirsi sempre inseriti coralmente in un dramma comune, in una vicenda di vita che potrebbe divenire la nostra. Quanto a specifiche notazioni interpretative, rimandiamo il lettore al capitolo successivo, in cui cercheremo di delineare e porre a confronto due diversi e contrastanti modi di esecuzione.

Ai Direttori d’Orchestra che in futuro vorranno ripercorrere questa impegnativa pagina, esprimiamo la assoluta necessità che concordino col loro Solista la interpretazione psicologica e musicale di ogni passo, con i tempi ed i modi adatti a illustrare i vari stati d’animo man mano che vengono espressi. Il grande Direttore, una volta impostato quanto sopra, si limiterà intelligentemente a far da raccordo tra il Solista e l’Orchestra, perchè si esprima sempre e soltanto una unica voce, con uniformità e aderenza alla base mentale ed emozionale; e ciò senza sovrapporvi suoi propri intendimenti non condivisi, e intervenendo nell’interpretazione a coprire, con assoluta coerenza e fedeltà a quanto concordato col Solista, gli spazi che il Compositore ha necessariamente riserbato alla sola Orchestra.

Interpretazioni a confronto

Tra le numerosissime interpretazioni di questo Concerto, una ci ha particolarmente colpito, per la sua aderenza ai significati profondi che abbiamo cercato di rivelare e tratteggiare.

E’ l’interpretazione di Christine Walewska, in un Concerto tenuto con la London Philarmonia Orchestra nel 1971 (Direttore: Alexander Gibson).

Forse la sua sensibilità femminile ha percepito inconsciamente le motivazioni più intime di questa Opera? E’ certo che raramente abbiamo udito qualcosa di simile.

Cercheremo, evidenziandone le differenze e le caratteristiche, di porla a confronto con l’interpretazione che Mstislav Leopol’dovič Rostropovič (forse il più grande violoncellista del nostro tempo) tenne pure a Londra, con la Royal Philharmonic Orchestra nel 1979 (Direttore: Sir Adrian Boult).

In linea generale, la Walewska interpreta questo Concerto con estrema umiltà, anche se con grande pathos e vigore interpretativo; il suo violoncello (un Bergonzi del 1740) ha una voce velata e drammatica, e al tempo stesso celestiale, capace di esprimere singhiozzi profondi come pure momenti di altissima spiritualità senza confusioni timbriche, rispondendo con estrema prontezza e con adeguata qualità sonora alle varie sollecitazioni emozionali provenienti dalla Solista.

Diversa è la attitudine di Rostropovič, che si pone in posizione di dominatore nei confronti di questo Concerto, proiettandovi la sua concezione e i suoi sentimenti: in altre parole, è Rostropovič che utilizza Dvoràk per esprimere la propria nostalgìa della patria (che è la grande e sacra madre Russia, e non la piccola, travagliata, misteriosa Boemia!) e i propri drammi di esule, per cui la sua interpretazione, d’altronde qualitativamente eccezionale, accende l’attenzione dell’ascoltatore piuttosto sulle capacità, sulle vicende di vita e sui sentimenti dell’Interprete anzichè su quelli del Compositore; e le due cose non sempre coincidono, anche se è stato detto che il Concerto di Dvoràk esprimeva grande nostalgìa per la patria lontana, e quindi sentimenti simili a quelli di Rostropovič: ma ci rifiutiamo decisamente di credere che un uomo della sensibilità di Rostropovič abbia visto e condiviso solo questo aspetto del Concerto, per noi addirittura inesistente .

Il violoncello usato da Rostropovič è uno Stradivari dalla voce solare, che può assumere toni di grande fermezza e acuti di grande splendore, in grado di dar vita a momenti di intensa, languida commozione e nostalgìa: ma questa voce è troppo pulita, troppo netta per poter trasmettere interamente e fedelmente emozioni coagulate nel sangue dell’anima.

Note

Nota 1 – Vedi Appendice 1 – 7

Nota 2 – Vedi Appendice 1 – 8a

Nota 3 – Vedi Appendice 1 – 8b